“Alcuni critici hanno detto sono il Nulla in Persona e questo non ha aiutato per niente il mio senso dell’esistenza. Poi mi sono reso conto che la stessa esistenza non è nulla e mi sono sentito meglio”
Marilyn Monroe, Liz Taylor, Liza Minnelli, Caroline di Monaco, Regina Schrecker, Grace Jones e Judy Garland. Ci sono tutte le donne che hanno ispirato l’arte di Andy Warhol (1928-1987), il maestro della pop art è cui è dedicata una mostra al Complesso del Vittoriano – Ala Brasini a Roma fino al prossimo 9 febbraio.
Oltre 170 opere, per lo più provenienti dalla collezione di Eugenio Falcioni, che ripercorrono la carriera dell’artista statunitense. La mostra, suddivisa in sezioni e curata da Matteo Bellenghi, parte infatti dai disegni degli anni Cinquanta realizzati per le riviste di moda e dalla serigrafia della prima serie Campbell’s Soup, dedicata alle minestre in scatola, fino ad arrivare ai celebri ritratti dei numerosi personaggi del mondo del cinema, della moda, della politica, dell’arte e della musica, figure storiche che l’artista ha trasformato in icone pop a partire dagli scatti della polaroid, il punto di partenza dei suoi lavori. “Questa esposizione va da Andy Warhol straccione a Andy Warhol imperatore della Pop Art”, ha spiegato Bellenghi, “Quale sarebbe l’upgrade della pop art oggi? Nell’epoca in cui il termine multitasking è entrato nella quotidianità di ognuno di noi rendendoci tutti schiavi di una necessità non dittatoriale quanto obbligatoria, se Andy Warhol oggi fosse ancora vivo avrebbe novant’anni e potremmo immaginarlo alle prese con il suo smartphone a scattare innumerevoli foto condividendole su Facebook e Instagram, per i suoi numerosissimi follower, contornate dai like e dai commenti di amici come Mick Jagger o Christopher Makos, senza dimenticare quanto sarebbe divertente leggere le reazioni e le discussioni sui social insieme anche agli artisti di altre correnti e pensieri, ognuno con il proprio diritto di accusa e di replica”.
È questa l’attualità della Pop Art che Giulio Carlo Argan ha definito come “la fine della concezione umanistica per cui l’arte era distinzione di oggetto e soggetto e definizione della loro relazione”. Per il critico d’arte, quella di Warhol era infatti l’arte dell’obsolescenza, ossia il processo di assorbimento e dissolvimento della notizia nella psicologia di massa. In questo senso l’artista ha studiato le immagini-notizie e come queste venissero assorbite dal pubblico, trasformandosi in slogan visivi e giungendo fino a noi come delle vere e proprie icone.
Da questa mostra rimane ai margini un altro ambito sociale molto trattato invece da Warhol, come quello dello sport, rappresentato nel percorso espositivo solo da un inchiostro serigrafico su carta del pugno del pugile Muhammad Alì, tralasciando tutti i volti, le icone sportive riprese dall’artista nel corso della sua carriera. Un binomio, quello tra arte e sport, che continua a non trovare la giusta evidenza e collocazione nel mondo della cultura.